Novembre 2011
Gentili colleghi,
oltre che magistrato sono padre di famiglia, come molti di voi.
Tra i miei figli c’è una ragazzina autistica di 15 anni.
Di recente ho appreso dalla stampa della grazia concessa dal
Presidente della Repubblica al Sig. Crapanzano, condannato per l’omicidio del
figlio autistico di circa trent’anni.
Nell’articolo
(Corriere della Sera) si faceva riferimento anche alle aspre critiche
ricevute dal collega che ha pronunciato la sentenza di condanna (Lorenzo
Matassa) con riferimento ai passaggi dedicati alla latitanza delle istituzioni,
sanitarie e non, rispetto alla situazione in cui viveva la famiglia Crapanzano,
che aveva invano chiesto aiuto di fronte all’aggravamento della patologia del
figlio (manifestatasi anche con accessi violenti, auto ed eterolesionistici).
Si tratta di passaggi importanti perché su di essi è stato
formulato un giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche sulla contestata
aggravante.
Trovandomi nello strano destino di unire alla professione di
magistrato il ruolo di padre di una figlia “speciale”, ho preso contatti con il
collega Matassa, il quale, gentilmente, mi ha trasmesso il testo della sentenza
(che a mia volta vi allego).
Ho letto con attenzione le riflessioni oggetto di critica ed ho riconosciuto,
nella ricostruzione della vicenda umana e del tormentato rapporto tra i
familiari e le istituzioni, la realtà di tante famiglie che vivono questo handicap,
molte delle quali incontrate attraverso le reti associative cresciute negli
ultimi anni.
La lettera del Presidente dell’ANGSA (una delle più importanti di
queste associazioni), riprodotta nella sua interezza nella motivazione della
sentenza, descrive in modo ineccepibile il quadro desolante che ha accompagnato
le famiglie che hanno dovuto affrontare questa condizione.
L’assenza di cure, di supporti riabilitativi, di proposte...
Le incomprensioni, la solitudine, il senso di abbandono…
Ho sempre pensato che solo vivendo dal di dentro questa situazione
fosse possibile comprendere gli effetti destabilizzanti che essa produce sul
piano umano, emotivo, psicologico e sociale.
Mi sbagliavo.
Il collega Matassa, che non conosco di persona, ma al quale va
tutta la mia stima, investito di un caso estremamente delicato, non si è
limitato a prendere atto della confessione del padre omicida.
Ha avuto il coraggio di entrare nel circuito del dolore, togliere
il velo di ipocrisia e porsi le domande giuste, traendone le dovute
conseguenze.
Se non lo avesse fatto, avrebbe reso un pessimo servizio alla
giustizia, come potrebbero confermare tutti coloro che hanno vissuto e che
vivono questa esperienza.
Per questo mi sembra doveroso dire a chiare lettere che quello di
cui si parla in quella sentenza risponde alla realtà delle cose e che chi,
all’interno della magistratura, non lo condivide, semplicemente non sa di cosa
si sta parlando.
Sarebbe un bene, invece, che questa sentenza venisse diffusa e che
venisse letta anche da coloro che sono preposti all’organizzazione dei servizi
sanitari e sociali, perché questa vicenda estrema, come a volta estrema è la
vita, possa indurre dei cambiamenti nel sistema e dare così un senso, se
possibile, alla fine terribile del giovane Crapanzano.
Massimo Radici - magistrato
P.S.
Quello che è cambiato rispetto alla situazione vissuta dalla
famiglia Crapanzano è che, grazie ad una maggiore consapevolezza dei genitori,
sono ora presenti sul territorio diverse associazioni che aiutano a mettere in comune
le esperienze ed a promuovere le ricerche.
Questo consente di sentirsi meno soli e di stimolare le energie di
ognuno, ma c’è ancora tantissimo da fare, anche perché la rete che i genitori
possono costruire attorno ai propri figli richiede tempo, dedizione, competenze,
disponibilità a rivedere il proprio modo di relazionarsi (qualità che non tutti
i genitori hanno o sono disposti ad acquisire) e purtroppo anche risorse
economiche non indifferenti (dovendo la famiglia farsi carico totalmente delle
spese per gli specialisti e per le terapie riabilitative).
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Comunità di S. Egidio: ''La storia di Sergio
Piscitello è drammatica, per l’intreccio di disperazione e di solitudine''
"La storia di Sergio Piscitello è drammatica.
E’ drammatica per l’intreccio di disperazione e di solitudine che accompagna il
mistero di una violenza estrema che non è frutto di rabbia o di odio ma che ha
radice in una cura e in un affetto profondi che non hanno saputo trovare vie
praticabili per la speranza di un futuro dignitoso". Lo afferma in un comunicato
la Comunità di Sant'Egidio, dopo la vicenda di cronaca dei giorni scorsi, che
ha visto il padre Salvatore uccidere il figlio Sergio, disabile, nella loro
casa romana.
"E’ una vicenda drammatica ma non è la storia
privata del dramma della famiglia Piscitello. L’handicap è un dramma che troppe
volte ci si trova a vivere da soli, senza mezzi, con pochi sostegni e in una
società che dell’handicap ha paura o sembra non interessarsi", prosegue
Sant'Egidio, precisando che la disabilità, l’handicap non è una "questione
privata". E’ proprio la "privatezza" che "aumenta
l’isolamento e che trasforma troppe volte difficoltà autentiche, che sono parte
della vita, in difficoltà insormontabili e che diventano premessa della
negazione della vita". "La vita di chi è disabile è complessa e
aggiunge complessità alla vita di chi disabile non è e sta accanto. La famiglia
è troppo spesso lasciata sola nelle scelte difficili, che diventano più
difficili quando aumentano gli anni e non si vedono soluzioni per i propri
figli non autosufficienti quando si è più vecchi - afferma ancora la Comunità
-. Non c’è da giustificare ma c’è da capire. La vita ha sempre un grande valore
e una dignità e potenzialità straordinarie anche quando è oppressa, umiliata,
appesantita dal bisogno, e sembra davvero già poca. Non è mai non-vita, è
sempre vita, anche se a volte può, superficialmente, sembrarlo. La disperazione
e i gesti disperati non possono essere l’ultima parola. Ma proprio per questo
non si possono lasciare sole le famiglie a gestire problemi a volte troppo
complessi, con carichi di sofferenza, dubbi, incertezze, fatica di vivere che
possono diventare schiaccianti".
La Comunità di Sant'Egidio propone quindi "a
ciascuno, a tutti, di fermarsi un attimo a pensare e di non allontanare il
dramma della famiglia di Sergio Piscitello come se fosse un atto di follia che
riguarda solo loro. Perché la disperazione non sia l’ultima parola occorre
creare una rete di protezione per chi vive il dramma della malattia nella
propria vita o nella propria casa. E’ una rete che ha bisogno di tutti, di
tante maglie con nomi e ruoli diversi: famiglia, vicini, simpatia attorno,
servizi sociali, istituzioni, società civile nel suo complesso, in un clima
mutato. Questa rete di protezione e di solidarietà è il contrario dell’indifferenza
e della solitudine in cui si è quasi sempre lasciati quando un problema è
troppo grande. E’ responsabilità dei servizi sociali ma anche di ognuno di noi
e di un clima, amichevole, da creare. Non si scioglie l’handicap, ma anche il
più pesante diventa più sopportabile".
Paissan Mauro - Il mondo di Sergio - prefazione di Stefano Rodotà -
Fazi Editore
E’ la storia di Sergio Piscitello, gravemente
autistico, che a 39 anni (nel 2003) è stato ucciso dal padre Salvatore dopo
l’ennesimo episodio di violenza. Nel 2006 il presidente Napolitano ha concesso
la grazia al genitore condannato per l’assassinio del figlio. In queste pagine
dure e sincere Paissan racconta la vicenda di una famiglia abbandonata a se
stessa, che ha visto il proprio amore trasformarsi in dolore e la propria
solitudine in tragedia. Il ricavato del libro contribuirà al progetto autismo
della Fondazione Handicap Dopo di noi.
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