Riportiamo dal blog di Gianluca Nicoletti
Non può esserci commento possibile alla notizia di una madre che accoltella il figlio di undici anni. Non basta appigliarsi alla scarna formula da lancio d’agenzie che informa vagamente che “soffriva di depressione”, a meno di voler correre il rischio di somigliare agli opinionisti da salottino tv, quelli che hanno l’espressione compunta davanti ai plastici di baite di montagna, alle copie di mannaie, alle foto di pavimenti con macchie ematiche.
Non è invece secondario il fatto che il bambino fosse autistico, l’elemento più delicato e “sensibile” che è trapelato dal riserbo necessario attorno alla vicenda. Oggi è d’ uso un generalizzare diffuso, quanto scellerato, che mette in rapporto l’ autismo con episodi di cruda cronaca, quindi non pongo al momento in cui scrivo l’ assoluta certezza che in realtà fosse quello il disturbo di cui soffrisse la vittima di quell’ atto di disperato furore.
Posso in coscienza sentirmi di dire, sulla mia personale esperienza familiare, che se il bambino di Promano è in realtà autistico, comprendo la depressione della madre, anche se naturalmente non giustifico minimamente il suo gesto.
Per una madre che viva in Italia non esistono, almeno al momento e per quello che io ho avuto modo di conoscere, molte situazioni altrettanto angosciose che dovere gestire un figlio autistico, alla soglia dell’ adolescenza. Nel nostro paese l’ approccio a una sindrome, che si pensa debba interessare (pare) seicentomila persone, è assolutamente irrazionale e superficiale. La dice lunga il fatto che siamo l’ unico paese che ai convegni internazionali non sia in grado di fornire dati certi su quanti siano effettivamente gli autistici, quale sia il livello di soddisfazione delle famiglie che debbono gestirne un caso, quale sia il destino di questi ragazzi una volta maggiorenni.
Quella madre sarà giudicata da chi è preposto a farlo, ma non possiamo perdere questa occasione per aprire una seria riflessione su quale sia il profondo senso di abbandono in cui si trova una famiglia che deve gestire un autistico, senza interlocutori certi e informati, senza che ci siano protocolli di abilitazione ufficializzati e applicati su tutto il territorio nazionale ( le linee guida emanate due anni fa dall’ I.S.S. ancora non sono state tramutate in legge e nessuno sembra interessato concretamente che questo avvenga).
In tutto questo resta, mellifluo e impalpabile, ma crudelmente lancinante, l’ antico pregiudizio che le madri abbiano concrete responsabilità sulla disabilità del figlio. Pochi lo ammettono, ma ancora viene chiesto a molte mamme di autistici se durante l’ allattamento avessero guardato negli occhi il figlio. L’ autismo in Italia, fatte salve alcune straordinarie eccellenze, è ancora istituzionalmente appannaggio di pressapochismo, ignoranza, superstizione.
Il peso maggiore di un problema così esteso, che rappresenta statisticamente la prima causa di disabilità, grava sulle famiglie. Nuclei familiari che lentamente vanno in disfacimento , dove le madri, ancor di più, restano sole a gestire un amatissimo vampiro, che allo stesso tempo è il loro carceriere e il loro sorvegliato speciale.
Tutto questo non giustifica le coltellate, ma serve a distribuire almeno la responsabilità di alcuni impazzimenti materni.
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